Vetuste sono, queste immagini che tengo con dolcezza tra le mani. Le ho conservate dal tempo che sfugge, e che ci lascia solo ricordi, gioie o rimpianti.
Ora le guardo, con quello sguardo critico, capace di individuare quel particolare che rende la foto speciale. Con sentito rispetto, accarezzo con l’indice i bordi del ritratto, smussati dal tempo e lievemente ingialliti. Un susseguirsi d’immagini d’altre epoche e più recenti, una testimonianza, il racconto di una vita. Di più vite, in fondo, che si sono intrecciate in un abbraccio effimero durato quel tempo lasciato dal proprio destino.
Ma non è questo, ciò che ora importa: non sono i particolari che m’interessano. Voglio richiamare alla mente ciò che è stato, ciò che il tempo si è portato via, lasciandomi qui… con una sensazione d’angoscia alla gola, veicolata dallo sguardo fisso sulle foto ingiallite che con quel loro inconfutabile odore mi riportano al passato. “Papà!”
Ma perché torturare la mia coscienza? Che senso c’è a tollerare questo piacere arcano del rievocare sensazioni recondite? Il passato è alle nostre spalle, ora devo guardare in avanti! Ma eppure, mi sento inebriata dalle sensazioni che sfrecciano dalla mente al cuore, come fiammate d’un fuoco fatuo. Sono le frecce scoccate da un ipotetico arco fatato, che una ad una, raggiungono il bersaglio. Sì, il cuore: culla di tutte le percezioni, sorgente di ogni emozione. Meta facile, malleabile a piacimento, quando ancora innocente si lascia aprire come un fiore irrorato dai caldi raggi del sole.
Vorrei poter raccontare, trasportare fuori queste impressioni così profonde, specialmente quelle che maggiormente mi fanno patire. Condividere, mi hanno insegnato. Ma mi sento come paralizzata. Ho un fremito alle mani, mentre perfettamente conscia realizzo l’esistenza di questo connubio di circostanze: di vita e di morte.
Queste impronte, sono diamanti allo stato grezzo, incastonati nella membrana che racchiude ogni reminiscenza vissuta. Attendono d’essere cesellati, per poter sprigionare la loro bellezza e forza… Ma le parole rimangono lì, chete, cullate nella mia mente che ora inizia a lasciarsi trasportare via. Poi l’immaginazione mi abbraccia in quella sua maniera lussureggiante che mai vuoi condividere con altri. La fai tua, la tua musa segreta, quella che maggiormente evochi quando le ombre si avvicinano. Lasci la vigoria diamantina al suo posto, non è ancora giunto il momento adeguato per condividerne il fardello.
Socchiudo gli occhi e cerco di poggiare il grosso involto sulle ginocchia. Con difficoltà lo trattengo, in bilico, sul voluminoso ventre che racchiude una nuova vita, la mia ragione d’esistere.
All’improvviso e come per magia, odo nel mio cuore la voce di papà, sempre così melodiosa e autorevole. Ora appena un sussurrio che ricorda lo scorrere dell’acqua d’una fonte, non più il fragore d’un ruscello di monte. E quest’acqua cristallina e pura mi disseta, in quell’attimo di profondo dubbio e smarrimento.
Perché vacillare pensando alla magia della vita e della morte? Perché non concedersi totalmente a Dio ed alla sua onniveggenza? In fondo vita significa morte e morte, a sua volta, esprime il risultato ultimo della potenza della vita. Dualità mistica.
La voce di papà, da piccola mi incuteva timore: quando lo tediavo con ossessionanti domande e lui, stanco per il duro lavoro, non sempre capiva la mia urgenza. Era la necessità estrema di una bimba attorniata da un mondo nuovo e sempre mutante, le cui atrocità viste o sentite apparivano incomprensibili a quei suoi occhi innocenti.
Papà mi sorrideva: poi sempre c’era una carezza che mi pacava l’animo, ricordandomi che, successivamente, mi avrebbe spiegato.
E sempre trovava la soluzione ai miei enigmi: a volte sdrammatizzando i miei timori, a volte sottolineando l’importanza dell’argomento. Senza sosta mi ricordava che Dio vedeva ogni cosa, che Egli avrebbe premiato i retti e punito i malvagi.
Molti anni più tardi, iniziarono le nostre numerose spedizioni verso terre lontane. Gli avevo voluto offrire ciò che per innumerevoli anni lui aveva solo osato sognare: viaggiare!
Tutti i tramonti, i più intensi e luminosi, li avevamo ammirati filosofando e sognando un mondo migliore. Pur consci che la povertà estrema che i nostri occhi dovevano contemplare in quelle terre lontane, era lo scotto da pagare per assaporare il messaggio di quei crepuscoli.
E la vita, giorno dopo giorno, trascorreva inesorabile, effimera. Foglia dopo foglia, che si stacca dall’albero nell’autunno della sua esistenza, per poi permettere a nuovi germogli di svilupparsi rigogliosi durante la seguente primavera.
A volte, le passeggiate sul bordo del mare, creavano un’atmosfera mistica dove lo sciacquio della risacca ed il profumo della salsedine ci avevano fatto credere che il paradiso fosse sulla terra. Mentre le fronde delle alte palme disegnavano ricami di frescura sulla sabbia di cristallo, il sole s’apprestava a tuffarsi in quel mare cupo color dell’argento. Proprio tutto come in una visione.
Forse, se osassimo vivere i nostri sogni, questi non resterebbero mere mete impossibili da raggiungere. Quanto ardire!
Ma papà mi riportava sempre alla realtà. Sorrideva. Ai miei sogni ed utopie per un mondo migliore replicava: “Piccola mia, anche se la speranza è sempre l’ultima a morire, da sola non potrai cambiare il mondo!” Ma le ombre, quelle lasciate dalla guerra, dall’avidità, dalla sofferenza… erano sempre presenti; nubi oscure che soffocavano ogni utopia di felicità universale.
Un fremito, nel mio grembo, un leggero guizzo subitaneo mi riconduce al presente. “Papà! Perché non hai potuto attendere? Il bimbo sta per nascere! Non avresti dovuto partire… perché Dio che tanto pregavi, lo ha permesso? La creatura avrebbe necessitato il tuo sostegno, la tua saggezza.”
Ma l’ombra dell’addio è partecipe, brucia, poiché non riesco a lasciarla allontanare. Il distacco è sempre qualcosa di terribilmente difficile da accogliere nel nostro cuore. Egli vi penetra, insidiandosi nei meandri più reconditi, dove inizia a rigirarsi con fervore fino a provocare delle voragini nelle quali ti sembra che tutto il tuo essere sprofondi. Giù. In fondo, sempre più in profondità per quindi nutrire le lagrime e tormentare le tue notti. Un baratro che nessun ponte può sovrastare, poiché le fondamenta non hanno terreno stabile, sul motto oscillante d’un cuore profano.
Ma restano i ricordi, i sapori, gli odori, le percezioni profonde che hai condiviso con chi hai amato anche se ora ti ha lasciato, per sempre. E queste sensazioni vivranno senza sosta nella mia mente e cuore, fino a quando anche per me giungerà l’autunno della mia esistenza e finalmente l’ultima foglia si sarà staccata.
Riecheggia la mia voce flebile e gonfia di dolore, un tenue bisbiglio. “Papà!” Lascio che la testa posi sul cuscino della poltrona, mentre porto la mano sinistra sul ventre. La creatura percepisce questo sentimento profondo, si scuote dal suo torpore. Vive. Per qualche tempo, sussurro una ninna-nanna, un messaggio soave d’amore.
Una farfalla, dentro di me, ora rinchiusa e protetta come in un bozzolo. Di me si nutre, con me respira, insieme tessiamo il nostro presente, con un sentimento d’intimità sublime.
La piccola creatura nuovamente si agita, proprio come una farfalla, un sussulto appena. Mi parla col suo linguaggio pacato: sensazioni così fuggevoli che colmano il mio cuore di perfetta felicità, scacciando le ombre del dolore. Accarezzo il ventre e riprendo a mormorare la ninna-nanna. E le ombre, sconfitte, lentamente si allontanano.
“Schhh amore! Pensavo al tuo nonno, lo cercavo nei ricordi, poiché volevo sentirlo vicino. Mi manca, dolce creatura. Mi manca tanto da soffocare il mio respiro… Vorrei poterlo rivedere, ridere con lui delle nostre avventure, contare nuovamente le stelle nel cielo ed attendere che qualcuna di loro decida di lasciarsi cadere! Ne abbiamo viste tante precipitare lasciando una lunga scia di luce. Ogni stella era un auspicio, per noi, per il mondo che muore. Ma non voglio intimorirti. Tu, o dolce creatura, sarai forgiata affinché anche i sogni possano prendere forma e quindi posarsi ai tuoi piedi come petali di fiori alitati dal vento. Vedrai… appartieni ad una nuova generazione, ricolma delle nostre speranze. In questa nuova era, sono certa che molti si ravvedranno e vi aiuterete vicendevolmente a migliorare per il bene di questa Terra che ci permette di sopravvivere e ci nutre senza chiedere nulla in cambio.”
Riavvolgo con cura le immagini più antiche, mentre una lagrima sgorga con lentezza e scende lungo la guancia lasciando una traccia luminosa. Poi indugia, qualche secondo, ai lati della bocca; ne assaporo il gusto che mi riconduce coi ricordi al mare. Quindi ella cade nel vuoto; posandosi per morire sul mio ventre, lasciando come effimero ricordo un alone tenue ed oscuro.
Concorso letterario Dialogare 2007 – Lugano/Ticino