Il FINDERORIÉN

leopardo_delle_nevi

acquarello e testo: Claudine Giovannoni

In un luogo difficilmente raggiungibile via terra, viveva, e probabilmente vive ancora, un asceta. Non era più giovane, ma gli anni non avevano ancora segnato la sua carne con acciacchi e dolori tipici dell’invecchiamento. Pareva che per lui il tempo si fosse fermato!
Molti arrivavano da lontano per chiedere il suo consiglio o anche solo per sentirlo raccontare le sue Mille Storie.
Sarabi Al-Surfa, questo era il nome del Saggio, aveva cercato lungo le strade del mondo il segreto della felicità. Evidentemente da qualche parte lo aveva anche trovato, poiché nessuno lo aveva mai visto triste o arrabbiato, anzi l’anziano asceta era sempre sorridente e per ogni visitatore aveva in serbo una Storia speciale che pareva fatta su misura.
Taluni parlavano di magia, altri affermavano che Sarabi Al-Surfa sapesse leggere nel pensiero, altri ancora andavano dicendo che il brav’uomo fosse solo un pazzo.
Col passare dei mesi, ogni volta che ascoltavo i racconti delle persone che accompagnavo durante i voli per l’India, restavo sempre più incuriosita e dopo essere rincasata passavo ore ed ore a parlare ai miei gatti raccontando loro di quanto famoso fosse diventato il vecchio Saggio che raccontava le Mille Storie.
Avendo girato il mondo di Terra Acqua ed Aria, avevo sentito di parecchie stranezze, ma mai così particolari come la vicenda di Sarabi Al-Surfa.
Quest’uomo così singolare, aveva iniziato ad interessarmi in modo inquietante: volevo conoscerlo personalmente, desideravo ascoltare qualche sua Storia pensata appositamente per me. Ero sicura che mi avrebbe potuto dare tantissime informazioni importanti da condividere con tutti i nostri gatti, poiché di una cosa ero certa: loro erano i custodi di un enorme segreto!
Nella nostra casa abitavano una decina di gatti domestici ed un’altra decina di gatti selvatici ci visitavano regolarmente per ricevere cibo.
Più mi dedicavo a loro e più aumentava la convinzione che i nostri gatti non fossero lì con noi solo per caso, avevano scelto noi come padroni per una ragione misteriosa che io desideravo scoprire ad ogni costo.
Ormai sono già trascorsi diversi anni da quando finalmente mi decisi ad andare a cercare Sarabi Al-Surfa nel suo eremo. Ero ancora giovane, da poco sposata e volavo per il mondo seguendo le rotte tracciate dal mio lavoro.
Avevo chiesto un paio di settimane di vacanza, sicura che potessero bastare per mettermi in cammino lungo l’impervio percorso che da Delhi porta verso le immense montagne dell’Himalaya.
Arrivata all’aeroporto di Nuova Delhi avevo cercato con lo sguardo la mia amica indiana Govinda. L’avevo subito individuata tra la folla, portava un sari rosso fuoco con dei bordi ricamati con filo dorato. Agitava con foga le mani nell’aria cercando di attirare la mia attenzione; appuntato al vestito, ben visibile c’era il distintivo d’identificazione del personale di terra.
L’aeroporto di Delhi era piuttosto grande, quindi risultava facile perdersi quando lo sguardo si lasciava attirare dalle molteplici varietà di persone vocianti.
Avevo conosciuto Govinda nel 1988 durante uno dei miei primi voli in India, diventando subito amiche e complici di molte avventure. Lei lavorava per Air India, lì a Delhi, come hostess di terra.
Quando le avevo spiegato la mia folle idea di raggiungere Srinagar nello Jammu e Kashmir, Govinda si era rabbuiata in viso.
“Ma sei fuori di testa? Non sai che è pericoloso avventurarsi fin lassù? Il confine con il Pakistan è vicino e quello è un territorio conteso tra le due nazioni. Sono sempre in guerra ed ogni tanto ci sono anche degli attentati terroristici”.
Govinda era una donna coraggiosa, potrei quasi affermare che fosse una temeraria, per cui questa sua reazione mi aveva messo un po’ in allarme. Le avevo spiegato che non mi sarei fermata a Srinagar ma bensì che desideravo assolutamente raggiungere Leh.
La faccia della donna si era un po’ rilassata, poi aveva riso:
“Ah, e che vai a cercare a Leh? Lo Yeti? O hai conosciuto su qualche volo il figlio del Maharajah dello Jammu Shri Karan Singh?”
Evidentemente Govinda credeva che io stessi scherzando o che fosse una delle mie solite bizzarrie. Ma io ero convintissima e maledettamente seria! Sapevo che c’era anche un piccolo aeroporto, il Leh Kushok Bakula Rimpocee Airport. Da Srinagar, quando le condizioni meteorologiche lo permettevano, c’era un volo ogni 4 giorni e quindi in poco più di mezz’ora si giungeva a destinazione.
Quando avevo chiesto a Govinda di darmi qualche informazione più dettagliata di Sarabi Al-Surfa la mia amica si era fatta seria:
“E per quale ragione vuoi avventurarti per conoscere il vecchio Saggio della Montagna sacra? Ti potrebbe costare la vita… molti non sono mai tornati e diversi che sono tornati sono diventati… pazzi”.
“Ma tanti lo hanno visitato e lui ha donato loro una Storia. Io solo ne desidero una che mi permetta di comprendere il linguaggio dei miei gatti, desidero poter condividere con loro molto più di ciò che ora posso! Inoltre desidero sapere perché ci hanno scelti come padroni!”
Le avevo risposto con una voce piena di convinzione e determinazione.
Govinda mi aveva a lungo fissata negli occhi, uno sguardo oscuro come le notti senza luna, quando le nuvole coprono anche il tenue bagliore delle stelle del firmamento.
“Forse… forse Sarabi Al-Surfa non vorrà concederti il piacere di vederlo. E’ un uomo molto vecchio, magari è già morto da tempo. Sono così importanti i tuoi Amici gatti? Ne parli come se si trattasse di umani, non di animali”.
Come poteva Govinda anche solo dubitare dell’affetto profondo che mi legava ai miei felini? Le avevo risposto con voce risoluta:
“I miei mici sono una sorta di Chiave… io devo scoprire quale magica porta mi possono dischiudere… per questo il Vecchio Saggio mi dovrà raccontare la MIA Storia!”
Scuotendo la testa e gesticolando in aria con le mani, Govinda mi aveva accompagnato fino agli sportelli d’imbarco nel terminale dei “Domestic Flights”.
“Senti, io vengo con te. Ti accompagno, insomma! Non sai parlare hindi, anche se cerchi di camuffarti, si vede distante un chilometro che sei un’occidentale e mi sento in responsabilità per te”. Mi aveva detto con un sorriso l’amica indiana. Parlando con una sua collega di lavoro, che ogni tanto sbirciava verso di me con aria molto divertita, Govinda era riuscita a riservare due posti sull’aereo per Srinagar che sarebbe partito il giorno seguente. La coincidenza da Srinagar per Leh sarebbe però stata dopo 3 giorni, quindi a Srinagar avremmo dovuto trascorrere due notti.
Govinda aveva precisato:
“La mia amica, quella che ci ha rilasciato il biglietto, potrà fare il mio turno di lavoro. Io le ho già fatto parecchi favori in passato e volentieri me li ricambia; però quando saremo a Leh, dal vecchio Saggio, ci andrai da sola. Sono troppe le storie diventate ormai leggende, vedi, ho timore che conoscendo la mia Storia poi troppe cose potrebbero cambiare”.
“E sia, Govinda. Grazie che m’accompagnerai… non temere per me, c’è qualcosa che ancora non ti ho svelato, ma cammin facendo ti racconterò”.
Difficile pensare che lei avrebbe creduto alle mie parole… forse svelandole il mio segreto, avrebbe cambiato idea e a Srinagar  ci sarei dovuta andare da sola! Ma c’era tempo, tanto Tempo…
Nel pomeriggio, Govinda mi aveva accompagnato al quartiere degli antiquari, il Thief’s Market, dove speravo di trovare un Oggetto specifico… da portare in dono al vecchio Saggio.
Ricordavo di averne visti diversi, esposti sulle traballanti bancarelle dei venditori, durante un mio precedente viaggio a Delhi.
Anni or sono, ne avevo comperati tre simili per grandezza, ma completamente diversi in colore ed esecuzione.
Il meno appariscente lo avevo tenuto per me e mio marito e dopo averlo inserito sopra un supporto di granito, era in bella mostra sopra il pianoforte a mezza coda.
Più volte quell’Oggetto aveva attirato lo sguardo sbigottito d’amici che ci avevano visitato, mentre i gatti avevano velocemente imparato a servirsene e proprio sembrava che ci prendessero gusto.
Questo strano ed oscuro particolare mi aveva convinta che fosse un artefatto Magico!
Gli altri due li avevo regalati: uno ai miei genitori e l’altro ad un’anziana signora che viveva isolata dal mio paese natio, in una casa patrizia priva di acqua corrente ed elettricità. La donna ne aveva già visti di oggetti simili, un po’ ovunque nel mondo che anche lei aveva girato quando ancora la salute glielo permetteva.
Mio papà era rimasto affascinato dalla lavorazione accurata e precisa sul legno di sandalo con intarsi di madreperla, lapislazzuli ed ebano.
“É meraviglioso, figlia mia” ancora mi tornavano alla memoria le parole sussurrate mentre con le grandi mani accarezzava l’oggetto come se si trattasse di qualcosa d’inestimabile valore, “tutte le persone dovrebbero possederne uno, per ricordare… e per non dimenticare”.
Non ero mai riuscita a scoprire il vero nome dell’Oggetto poiché in ogni paese e cultura veniva chiamato in modo diverso come pure utilizzato per diversi scopi. Mio marito ed io avevamo deciso di chiamarlo FINDERORIÉN.
Sentivo, nell’intimo più profondo, che mio padre aveva ragione! Sarabi Al-Surfa avrebbe avuto bisogno di possederne uno, sempre che nessuno avesse già pensato di fargliene regalo.
Era come se una vocina dentro l’orecchio mi stesse consigliando di portargli un FINDERORIÉN in cambio della mia Storia.
“Sei proprio strana, sai?! Se non ti conoscessi da così tanti anni penso che non ti avrei dato retta. E sei sicura che riuscirai a trovare quel coso… come hai detto che si chiama? FINDERORIÉN? Mai sentito nominare”.
Govinda mi stava strattonando per il braccio, era seria in viso e sicuramente anche un po’ preoccupata. Era sempre apprensiva quando la rendevo partecipe dei miei pensieri, credeva che fosse una sorta di maledizione che sta accollata addosso a noi occidentali, quella d’avere la mente sempre occupata dal domani senza mai riuscire ad apprezzare l’istante, il qui ed ora.
“Senti Govinda, amica mia, non devi sentirti obbligata a venire con me a Leh. Apprezzo la tua offerta e generosità ma in fondo è la mia Missione; vedi, ci sono cose nella vita che sono predestinate sin dal concepimento e a nulla serve cercare d’ignorare l’esistenza del fato… o del destino… o predestinazione o di tutte e tre le cose congiunte. Scuotendo leggermente la testa, la mia amica aveva aggiunto:
“Forse non ho così tanta fiducia nell’istinto, cara mia, altrimenti temo che non sarei più a Delhi da molto tempo! Forse avrei dovuto lasciare questa città e partire anch’io per le Maldive come hanno fatto i miei fratelli. Semplicemente non vorrei che ti capitasse qualcosa di brutto, la storia dell’eremita mi ha messo addosso dell’agitazione. Si è parlato molto di lui, se ne parla sempre, e c’è chi dopo averlo conosciuto non è più la stessa persona di prima. Il Potere delle sue Storie è molto grande, dicono, così grande che ha facoltà di cambiare in modo definitivo chi le ascolta! Sei sicura di voler cambiare?”
Quella era una domanda che mi aveva preso alla sprovvista, non mi aspettavo di certo che Govinda si preoccupasse così tanto per me e neppure immaginavo che lei fosse a conoscenza di così tanti particolari su Sarabi Al-Surfa. Ma più convinta che mai avevo risposto con voce ferma:
“Si, la Storia che il Saggio mi racconterà, sempre che accetti, mi servirà per comunicare con i miei amici felini. No, per favore, non guardarmi con quegli occhi… sono seria, non ho la febbre e sto bene. Ti ho già raccontato che mio marito ed io condividiamo la stessa passione per i gatti: 10 vivono con noi ed un’altra decina ci visitano regolarmente per ricevere del cibo. Proprio una volta che Nabucodonosor ed Amneris stavano toccando con le loro zampine il nostro FINDERORIÉN ho avuto una strana visione: l’oggetto si era fatto grande trasformandosi sotto il mio sguardo incredulo. In seguito avevo udito una voce possente parlare ai due gatti,” avevo fatto una breve pausa per riprendere fiato, “ma io non avevo compreso il significato di quelle parole”.
Govinda era rimasta a bocca aperta, un paio di volte aveva deglutito con difficoltà e poi aveva balbettato:
“Ah… così hai avuto una visione?! E hai sentito lo strano oggetto… parlare ai tuoi gatti, evidentemente, i gatti gli avranno risposto qualcosa che tu non hai capito?!”
Io ero rimasta ad osservarla in silenzio, poi avevo guardato attorno a noi per verificare se altre persone avessero seguito il nostro dialogo.
“Govinda, è una storia troppo lunga quanto strana per raccontartela, così, su due piedi. Le foto dei nostri gatti te le ho già mostrate l’ultima volta che siamo state insieme a Jaipur. Sono anche convinta che i nomi dei nostri felini non sono casuali”.
Govinda sorrideva compiaciuta:
“Si, sono proprio dei nomi speciali, ma ancora di più trovo sorprendente la visione che hai avuto del FINDERORIÉN. Forse il mistero è racchiuso in questi strani oggetti!”
Finalmente eravamo arrivate in fondo ad una stretta viuzza polverosa e piena di gente. Il caldo si era fatto insopportabile, il sudore mi scivolava giù dalla fronte mentre il kafkano di lino arancione mi si stava incollando letteralmente addosso. Ad un tratto, da un angolo della viuzza, un bambino si alzò da terra e mi venne incontro: tra le manine teneva il più bel FINDERORIÉN che io avessi mai visto!
“L’ho tenuto in serbo per lei, signora!”
Mi disse regalandomi un bianco sorriso d’innocenza e genuinità. L’oggetto brillava tra le sue dita minute, sporche di terra. In quell’attimo avevo compreso che quello era il giusto contributo per la storia che Sarabi Al-Sufa  mi avrebbe raccontato.
Con mani tremanti presi in consegna l’oggetto e poi cercai con lo sguardo Govinda per mostrarglielo, ma quando volli pagare il bimbo, questi era sparito! Lo cercai tra la folla, sperando di scorgere il candore del suo sorriso… feci qualche passo attorno. Magari si era intimorito ed era andato a rannicchiarsi in un angolo.
Quando Govinda finalmente mi raggiunse, subito si accorse dell’oggetto che tenevo tra le mani e naturalmente aveva letto lo sbigottimento nei miei occhi.
“Sant’Iddio, dove lo hai trovato?”
Non avevo parole per risponderle, ancora cercavo di comprendere che cosa mi stesse accadendo. Con lo sguardo, avevo nuovamente cercato il bimbo che pareva essersi smaterializzato; per la strada c’era solo la solita grande folla multicolore che gridava e gesticolava ai passanti cercando di attirare la loro attenzione. Del ragazzo, neppure l’ombra! Eppure da qualche parte era sicuramente andato… Avevo provato una sorta di panico, mentre stringevo con forza l’Oggetto tra le mani sudate ed impolverate.
Govinda mi guardava con occhi inquisitori:
“Che fai? Mica avrai l’intenzione di restare qui per il resto della giornata. E’ da un po’ che ti stavo chiamando. Guarda, si sono tutti girati a guardarci!”
Intanto sorrideva un po’ forzatamente mentre in indi parlottava con due donne che mi indicavano con il dito puntato. Dai loro sguardi traspariva una sorta di rispetto, misto ad incredulità. Mi ero limitata a sorridere in ritorno ma ora quelle donne vestite con dei Sari azzurri e rosso cardinale, venivano verso di me con le mani protese.
“Cavoli! Govinda, che vogliono queste buone donne? Perché continuano ad additarmi? E perché tutti gli altri stanno a guardarci con le facce sbigottite?”
La ragazza aveva necessitato di qualche secondo in più per realizzare, poi mi si era avvicinata con un movimento brusco e rapidissimo:
“Senti, meglio filarcela da qui, dicono che hanno visto il Piccolo che ti ha dato un oggetto… affermano che è un Segno di buon auspicio… dicono che sei una donna fortunata e vogliono sapere chi sei… Queste cose accadono qui, in India, non è buono fermarsi, vieni, andiamocene in fretta prima che sia troppo tardi!”
Senza neppure rendermi conto, entrambe stavamo misurando a grandi falcate tutto il percorso disseminato di bancarelle e chincaglierie varie che conduceva alla strada principale. Sentivo il cuore in gola e la sensazione di panico iniziale si era tramutata in angoscia!
Chi diavolo era quel fanciullo? Cosa avevano visto le donne lì attorno che era sfuggito alla mia attenzione?
Le domande continuavano ad assillarmi anche quanto, più o meno comodamente seduta su di un sedile delle classe economica della Air India, faticavo a mettere insieme i particolari della storia del giorno prima.
Govinda, seduta accanto a me, dormiva profondamente. Aveva passato la notte sveglia ad osservare fuori dalla finestra dapprima la luna piena e poi il sole che sorgeva. Mi aveva raccontato che soffriva di insonnia… sapevo che era una bugia, l’avevo sentita bisbigliare dei Mantra tutta la notte. Mi chiedevo se fosse giusto ciò che stavo facendo, coinvolgendo un’amica in un’avventura magari piena di pericoli e rischi. Poi avevo pensato a quando con mio padre avevo discusso di filosofia, alle volte che lui mi aveva suggerito di seguire l’istinto.
“Dentro ognuno di noi” mi aveva confidato “c’è un’Anima immortale. E’ una specie di Ponte con tutte le vite precedenti, con ogni insegnamento che ci è stato dato nel corso di innumerevoli esistenze. Devi fidarti del tuo istinto anche se molte volte hai timore di fare degli errori; metti sempre l’amore in ogni tuo pensiero, in ogni tua azione. Se sarà l’Amore a guidare ogni tuo respiro, allora l’istinto sarà interamente risvegliato e ti permetterà anche di vedere nel futuro e di fare prodigi. Ma non scordare, ogni azione deve essere virtuosa e legata all’amore per ogni essere vivente: natura, animali, uomini”.
Avevo sempre ascoltato gli insegnamenti di papà, sentivo che mi avrebbero portata lontano, molto lontano!
Quando il pilota aveva annunciato l’atterraggio di lì a 15 minuti, Govinda si era da poco assopita. Sarebbe stata una giornata lunghissima!
Inizialmente aveva evitato di porre altre domande o di guardarmi con quei suoi occhi indagatori. La ragazza aveva però stuzzicato i miei ricordi:
“Ecco, guarda laggiù, quelli sono i laghi… molto simili a quelli che hai nel tuo piccolo paese, nevvero?”
Effettivamente quella zona al nord dell’India era molto simile alla nostra piccola Svizzera. Pensare alla casa, ai gatti, a mio marito, aveva accresciuto l’urgenza e ravvivato la vera motivazione della mia presenza in quel luogo sperduto alle pendici dell’Himalaya.
Nella mia sacca percepivo sempre più la presenza del FINDERORIÉN, come se l’avanzare verso nord e le nevi eterne facesse vibrare l’oggetto in modo pronunciato.
Govinda aveva per me in serbo una bella sorpresa: al posto di entrare nella città di Srinagar, il piccolo taxi traballante e senza sospensioni, prese la via che costeggiava un lago.
Dopo circa una mezz’ora di tragitto, da un’altura vidi il grande lago sottostante che rispecchiava l’azzurro del cielo tappezzato di enormi nuvole biancastre e paffute.
“Eccoci arrivati. Ho pensato di trascorrere due notti un po’ diverse, sopra una chiatta galleggiante”.
Govinda mi osservava con gli occhi semichiusi come se volesse trapassarmi per leggere i pensieri non espressi.
“Vedrai com’è speciale, potremmo navigare lungo i corsi d’acqua e poi tra tre giorni torneremo in tempo per prendere il volo in direzione di Leh. Così potrai dire d’avere provato le emozioni dello Jammu e Kashmir!”
Ero rimasta veramente senza parole, un po’ sconcertata che la mia amica inizialmente così terrificata dall’idea di andare in quella regione contesa tra l’India ed il Pakistan, potesse addirittura pensare ad una gita di piacere piuttosto che barricarsi all’interno di un albergo per turisti paurosi.
Dalla nostra abitazione galleggiante, il grande Lago di Dal risplendeva sotto i raggi del sole ormai allo zenit. La natura appariva rigogliosa e verde, l’aria era fresca e frizzante ed in lontananza la corona di montagne sovrastava la città di Srinagar come in un abbraccio.
Non vi sono parole adeguate per descrivere quei luoghi dove Madre Natura ha concentrato meraviglie suggestive; l’Uomo aveva poi continuato il lavoro inserendo molti templi che si ergevano in altezza quasi volessero protendersi verso il Paradiso nell’imitare l’altezza delle montagne del Ladakh: la catena dell’Himalaya.
Lo skipper, se così posso permettermi di chiamarlo, era poco incline alla conversazione. Apparentemente non comprendeva l’inglese, anche se la cosa mi sembrava molto strana poiché in genere chi lavorava a contatto coi turisti qualche parola di cortesia la conosceva.
Aveva detto di chiamarsi Sabibar, portava l’usuale turbante tipico dei seguaci della religione sikh, molto presenti in quella zona nel nord dell’India.
Sabibar preparava i nostri pasti con molta cura ed attenzione ai particolari: sul vassoio poggiato a poppa del natante, c’erano sempre dei fiori, buganvillee rosate ed un bellissimo fiore giallo dal nome impronunciabile.
Essendomi riabituata al cibo speziato, avevo iniziato ad apprezzare le fragranze tipiche dello Jammu chiedendo esplicitamente a Sabibar le mie preferenze vegetariane. I diversi dal con paneer che aveva cucinato, erano sublimi!
L’uomo era molto incuriosito dai nostri discorsi poiché, più di una volta, lo avevo sorpreso ad origliare da dietro il pannello che ci separava dalla sua posizione di skipper.
La sensazione si era fatta molto pronunciata anche durante il secondo giorno di permanenza sul battello, mentre placidamente scivolavamo sulla superficie cobalto oscuro del lago.
“Govinda, ho l’impressione che lo skipper sia un po’ troppo interessato dalle nostre conversazioni. Sei tu che lo hai scelto per questo soggiorno a Srinagar?”
La giovane mi aveva guardato con il suo solito sguardo perplesso.
“No. Mi sono rivolta all’agenzia di viaggio di Delhi, quella dove siamo state anche per i nostri viaggi a Jodhpur e Agra gli scorsi anni. Ma perché sei così piena di dubbi? Da quando siamo partite non fai che vedere stranezze ovunque… dai, prova un po’ a rilassarti. Hai un’immaginazione da fare invidia! Ce n’è ancora di strada da fare per arrivare a Leh, neppure sappiamo se il tuo Saggio sarà lì ad attenderti all’arrivo dell’aereo!”
Poi Govinda aveva riso di gusto, come se per lei tutta questa storia avesse assunto un carattere di giallo d’avventura. Per me era ben diverso. L’impressione che qualcosa mi stesse sfuggendo di mano si faceva sempre più marcata, ma non sapevo se cercare di cavare qualche parola dalla bocca di Sabibar che apparentemente sapeva utilizzare bene solo le orecchie per ascoltare i nostri discorsi e le mani per cucinare.
Il terzo giorno, durante la colazione a base di frutta, yogurt e nan, Sabibar aveva finalmente deciso di farci sentire il timbro della sua voce:
“Signore, chiedo umile scusa, desidero con piacere presentare la mia disponibilità. Ho capito che andate a Leh, ho compreso che la signora straniera cerca Sarabi Al-Surfa. Ho conosciuto il vecchio Saggio, molti anni fa, quando ho perso la mia famiglia. Io posso portarvi da lui”.
Govinda si era lasciata scivolare di mano il pezzo di nan imburrato che le era finito sul sari lasciando un’evidente macchia di grasso. Poi mi aveva guardata senza fiatare, lasciandomi evidentemente la responsabilità di rispondere.
Avevo osservato il viso dell’uomo che ora sorrideva in modo affabile; ogni mio dubbio sul suo conto era svanito ed ora mi ritrovavo unicamente davanti ad una persona che offriva il suo aiuto, pensavo per qualche ragione legata alla scomparsa dei suoi famigliari.
Avevo però atteso un paio di minuti prima di rispondere a Sabibar, il mio sguardo si era dapprima portato sopra la superficie dell’acqua, poi lungo la riva che pian piano si avvicinava segnando l’imminente partenza verso l’aeroporto alla volta di Leh. Non ci sarebbe stato unicamente d’impiccio quest’uomo? Già Govinda non voleva seguirmi alla ricerca di Sarabi Al Surfa… ed io avrei forse dovuto avere fiducia in un perfetto sconosciuto?
“Per quale ragione ora ci offre il suo aiuto?”
La domanda lo aveva sicuramente colpito nel suo orgoglio poiché Sabibar si era un po’ indispettito; è possibile che non volesse raccontarmi troppo sul suo conto, ma aveva tagliato corto affermando:
“Devo molto al vecchio Saggio, signora. Questo le deve bastare come spiegazione… non desidero ricevere un compenso, il mio aiuto è un dono poiché anche lei porterà un Regalo a Sarabi Al-Surfa. Lui attende lei, signora, per donarle la sua Storia”.
Ero sempre più confusa: eppure sulla barca con Govinda non avevo mai fatto accenno al FINDERORIÉN. Inoltre non mi ero mai separata dall’oggetto che era stato riposto con cura nella sacca dalla quale non mi staccavo neppure quando dormivo. Come poteva Sabibar sapere della sua esistenza?
“Io… dovrei portare un Regalo al vecchio Saggio. Ah sì? E tu come lo sai, sono proprio curiosa di sentire anche questa parte della Storia!”
Evidentemente mi ero un po’ alterata, la mia voce era stridula, Govinda si era messa con educazione la mano davanti alla bocca: stava ridendo. Gli occhi tradivano la sua ilarità mentre rispondeva lei al posto dello Skipper:
“Ohh, ma questo è il paese dei misteri, amica mia! Non scordarti che l’India è Magia e tu non sai quali sono i poteri che qui si amplificano in armonia con la bellezza della natura!”
Sabibar mi guardava con serietà fissandomi negli occhi e, senza abbassare lo sguardo, aveva aggiunto:
“Signora, lasci che sia il suo cuore a guidare la Mente, come le ha insegnato suo padre”.
In quel preciso momento, tutto si era fermato, non provavo più la percezione del dondolio della barca sull’acqua. Non sentivo più l’aria frizzante che entrava nel mio corpo caricando il sangue d’ossigeno. Non vedevo più l’azzurro del cielo, con il circolo delle montagne che si congiungeva al cobalto dell’acqua… ogni mio senso percettivo si era eclissato nella più totale mancanza dimensionale.
Sgomenta, osservavo il viso di Sabibar che a poco a poco sembrava modificasse la sua struttura molecolare, assumendo quella del viso del bimbo che avevo visto nelle strade del Tief-market.
Una frazione di secondo ancora e sarei svenuta se non ci fosse stata la prontezza di Govinda a richiamarmi alla realtà:
“Dai, prepariamo le nostre cose, dobbiamo scendere a terra tra un po’ e potrai decidere se vuoi portare anche lui con noi”
Alla fine avevo deciso di prendere con noi Sabibar. Ascoltando il linguaggio del mio cuore, qualcosa mi suggeriva che molto presto avrei avuto bisogno del suo aiuto.
All’aeroporto di Srinagar, grazie a Govinda, comprammo un biglietto della Air India anche per Sabibar. Era un volo di circa mezz’ora, ma che ci avrebbe risparmiato più di 400 chilometri di strada non sempre percorribile senza inghippi. E di ricordi consumati nella regione di Gilgit al nord del Pakistan, ne avevo collezionati parecchi! Quelle strade sul Tetto del Mondo non erano una passeggiata domenicale, senza dimenticare che purtroppo non avevo un mese di tempo a disposizione.
Sabibar aveva guardato fuori dal finestrino durante tutto il volo; mi ero chiesta parecchie volte se quella fosse stata la prima volta che l’uomo sedesse in un aeroplano! Era però apparso tranquillo e sicuro di sé; nell’aereo c’erano polli in gabbie di filo di ferro e persino una capretta che continuava a dimenarsi. Io avevo dovuto trattenere la mia solita ilarità di fronte a simili scene: ma questo era un’altra realtà. Una sorta di mondo parallelo dove tutto assumeva altri significati.
Alla nostra sinistra, la catena montagnosa dello Zanskara si estendeva fino ad cingersi a quella del Ladakh ammaliando il nostro sguardo con una sorta di apparizione irreale. Pur essendo abituata a vedere questi inermi titani in balia del loro destino, dall’alto a più di diecimila metri d’altitudine, restavo ogni volta stupefatta dalla bellezza del nostro pianeta Terra. Qui le forze del vento e quelle del sole appaiono straordinarie: come se in quest’angolo di terra l’evoluzione non si fosse ancora completata.
Tra nuvole soffici come la spuma di un bagnasciuga, apparve più giù l’Indo e la valle dove ancora vivono i membri della tribù dei Brokpa. Uomini dalla pelle chiara ed occhi azzurri o verdi; individui le cui radici discendono dall’armata macedone di Alessandro Magno, da secoli dimentichi della gloria del passato.
Sapevo che in quei luoghi sottostanti molteplici tempi buddisti erano inseriti, come gioielli incastonati, in oasi verdeggianti. Avevo visto rappresentazioni dei templi di Likiri, Lamayuru, Ridzong, Archi, Thiksey e Himris. Vestigia che narrano di monaci volanti dai misteriosi e straordinari poteri, di laghi e mari ora prosciugati, di raffigurazioni di leoni marini e di miti della religione Bonpo. Erano i riti tantrici e sciamanici dei buddisti, che ricollegano l’esoterico alla realtà della nostra presenza in questo corpo.
Il tempo era letteralmente “volato”, mentre mi occupavo da un lato a spiare Sabibar che era seduto nella fila opposta alla mia e dall’altro ad ammirare il panorama. Govinda aveva ricamato una sorta di cintura che, mi aveva svelato, voleva regalare come paramento a sua sorella che si sarebbe sposata fra 4 mesi.
L’offerta del nostro ex skipper di farci da guida turistica verso le montagne, non mi dava particolari preoccupazioni, se non per la frase concernente mio padre che ancora mi angosciava.
Ero ormai sicura che la presenza dell’uomo non fosse casuale, presto o tardi mi avrebbe svelato il mistero, la ragione per la quale si era preso così a cuore il mio pellegrinaggio nelle misteriose valli dell’Himalaya alla ricerca del vecchio Saggio.
Atterrati al Leh Kushok Bakula Rimpocee, tutto aveva assunto un’altra priorità. Sabibar mi osservava con lo sguardo torbido, mentre da sotto il sedile anteriore estraevo la mia sacca contenente il FINDERORIÉN.
All’aeroporto di Srinagar notai la deferenza mostrata dagli impiegati aeroportuali nei confronti di Sabibar. Sul suo turbante color rubino, era apparso come dal nulla un grosso diadema raffigurante il Khanda, simbolo della religione sikh: due scimitarre ed un pugnale centrale. Chi era mai quest’uomo? Da provetto timoniere attraverso i laghi ed insenature attorno a Srinagar, si era forse tramutato in qualcosa di temibile e pericoloso? Qual era il suo reale scopo nel volerci accompagnare?
Percepivo a volte con un certo fastidio quel suo sguardo scrutatore; in fondo non potevo ancora fargli completa fiducia, e perché mai avrei dovuto?
Nella vita avevo sempre dovuto combattere per i miei ideali, argomentare ogni mio pensiero e mai avevo ricevuto sostegno da chicchessia in modo disinteressato.
Mi concentrai allora su di una storia, di cui avevo sentito molto parlare, del monastero di Matho, l’unico convento appartenente all’oscura setta dei Sakya, monaci-sciamani che praticavano riti occulti e dei quali si narrava che riuscissero persino a volare.
Forse loro, questi Sakya, avrebbero saputo darmi delle informazioni su Sarabi Al-Surfa? Si diceva che questi monaci sapessero anche predire il futuro! Ma Sabibar apparentemente leggeva anche nel mio pensiero, oppure disponeva di qualche altra dote sovrannaturale che al momento non riuscivo a catalogare.
“No, Signora. Non è così che lei troverà il vecchio Saggio. Deve seguire il suo cuore, il percorso non è facile, ma l’insegnamento che lei riceverà è la Meta che tutti cercano durante una vita intera! I Sakya non possono aiutarla”.
L’uomo aveva apparentemente toccato un mio punto debole poiché subito mi ero sentita giudicata. Ed io odiavo, sopra ogni cosa, passare al vaglio di sconosciuti. Govinda aveva letto nel mio sguardo un certo fastidio:
“Dai, sentiamo cosa ci propone di fare Sabibar”, mi aveva detto sottovoce all’orecchio. Poi rivolgendosi all’uomo aveva chiesto:
“Ma tu conosci questo posto? Intendo dire, sei già stato a Leh e nelle zone circostanti?”
L’uomo molto probabilmente aveva poca voglia di parlare e si era limitato ad aggiungere:
“Lo conosco. Discuteremo quando sarà tempo per farlo”.
Avevamo raggiunto a piedi il piccolo Homestay, una specie di pensione domestica, i cui proprietari mettevano qualche camera a disposizione dei turisti.
Erano luoghi tradizionali dove si poteva condividere la vita degli abitanti. Avevo freddo e purtroppo neppure la spessa felpa mi proteggeva sufficientemente. Mi ero pentita di non aver considerato che in quelle vallate, durante la notte anche se era estate, la temperatura poteva scendere sotto lo zero. La serata era trascorsa velocemente, si era fatto in fretta buio ma Sabibar non aveva pensato fosse il momento propizio per parlare e quindi era restato muto come un pesce.
“Lo preferivo quando raccontava le sue scemenze”, avevo confessato a Govinda finita la cena.
“Che cosa cavolo aspetta per dirci dove andare a cercare il vecchio Saggio? E perché tutti questi misteri?”
Evidentemente l’uomo sapeva del disagio che aveva creato, i suoi occhi si erano fatti cupi ed a volte mi era sembrato che vi brillasse una luce di malvagità.
Terminato il tè avevo svelato alla mia amica l’intenzione di parlare con il proprietario della casa, ma lei in risposta mi aveva unicamente consigliato di non cercare guai.
“Lascia che la notte ti porti consiglio, amica mia. Non credo che potrai fare molto e tanto meno trovare Sarabi Al-Surfa così su due piedi. La pazienza è una virtù dei saggi!”
Quella notte feci uno strano sogno: un immenso Leopardo delle nevi mi aveva inseguito lungo un fiume ghiacciato. Mi ero potuta rifugiare in un Chorten ricoperto da una spessa lamina d’oro al cui interno bruciava incenso d’erbe. Il fumo era fitto e l’aroma penetrante, poi il grande Leopardo era riuscito ad entrare ma non mi aveva fatto male. L’animale mi aveva solo parlato ed io avevo compreso il suo linguaggio!
Mi ero risvegliata col cuore che batteva all’impazzata. Accanto a me, coricata sopra un materasso, dormiva Govinda. Sapevo che si trattava di un presagio: il Leopardo è un felino. Tutto questo sicuramente era da ricollegare alla ragione per la quale mi trovavo a Leh. Pensai ai miei gatti, chissà se io mancavo loro quanto loro mancavano a me!
Non ero più riuscita a riaddormentarmi, così avevo deciso di alzarmi non appena la luce mi avrebbe permesso di camminare senza rischio d’inciampare; non c’era luce elettrica in quell’abitazione.
Alle quattro e trenta del mattino mi trovavo sulla terrazza di legno ad osservare la natura che si risvegliava. Con un sussulto avevo realizzato che non ero sola. Sabibar mi sorrideva mentre con la mano segnava in direzione di un’increspatura nella montagna.
“E’ lassù che deve andare. Ma forse con un po’ di fortuna il Saggio verrà ancora da lei. Non sempre assume la forma di un Leopardo delle nevi!”
Inebetita ero rimasta con la bocca aperta senza riuscire a proferire parola. Pensavo fosse a causa dell’altezza, eravamo a 3.500 metri sopra il livello del mare.
“No, non è la mancanza d’ossigeno, Signora. Io posso davvero leggere nel suo pensiero, come pure possiedo altre facoltà che le potranno apparire piuttosto strane. Non mi deve temere, le ho ricordato di lasciare al suo cuore il compito di guidarla. L’Amore non fallisce mai, anche se molte volte ci fa soffrire. Deve anche imparare ad utilizzare il FINDERORIÉN e per questo Sarabi Al-Surfa la sta attendendo. L’ha cercata nel sogno, ma lei ha avuto paura nonostante il leopardo sia pure un felino… un po’ più grande dei suoi gatti, è vero”.
Continuava ad osservarmi mentre con le mani tracciava degli strani segni nell’aria. In seguito, sempre seduta sul terrazzo con una coperta sulle ginocchia, avevo pazientemente atteso che Govinda si destasse. Sabbiar era sicuramente andato a zonzo per conto suo, senza aggiungere altri particolari al nostro breve colloquio mattutino.
Quello strano individuo m’incuriosiva sempre di più: anche il nostro oste era molto rispettoso nei suoi confronti ed a me, tutti quei salamelecchi ed inchini, avevano iniziato ad infastidire. E se si fosse trattato di qualche persona importante che non voleva far sapere il fatto suo? Magari era di discendenza reale? Un qualche Maharajah in incognito?
Ma in fondo al cuore sapevo che da lui non dovevo temere nulla. La vita mi aveva insegnato che molte volte incontriamo una persona che ci è molto vicina per qualche giorno, un’altra ci accompagna per mesi, qualche altra condivide i nostri crucci e gioie per anni. Ma quando la ragione della loro presenza finisce e l’insegnamento che dovevamo ricevere è stato dato, quella persona ci può lasciare!
Un po’ come la consapevolezza che ogni essere vivente un giorno muore, per poi rinascere in un altro corpo e quindi continuare il Sentiero che lo dovrebbe portare alla vera Felicità e Libertà!
Sabibar era una sorta di strumento che mi aveva permesso di conoscere ed imparare qualcosa di nuovo e per me importante.
Avevo ammirato il sorgere del sole, mentre il cielo si tingeva di fiori di pesco e ciliegio, pochissime nuvole macchiavano l’orizzonte ad occidente forse preannunciando l’arrivo di un temporale portato dai venti da sud delle altissime montagne. Molti uccelli cinguettavano fin dai primi albori, trilli e gorgheggi festosi che rivelavano al mondo l’arrivo del sole.
Lo sguardo mi era sfuggito più volte nella direzione indicata da Sabibar: Lassù viveva Sarabi Al-Surfa.
La montagna appariva brulla e con poca vegetazione di bassi cespugli ma non riuscivo a vedere nulla di simile al paesaggio del sogno della notte precedente. Nel sogno era inverno e le montagne erano ricoperte di neve che brillava alla luce della luna piena mentre il fiume era gelato e faceva un freddo terribile.
Cullata dallo zufolio degli uccelli e dalla nenia di persone che, da qualche parte nella palazzina, stavano recitando delle preghiere, dovevo essermi assopita per un po’.
Mi svegliai di soprassalto percependo la mano dell’oste che mi scuoteva leggermente la spalla; c’era un grande sorriso sul suo volto mentre con voce insistente mi ripeteva in inglese di seguirlo!
Sul retro della palazzina si erano già radunate diverse persone tra le quali anche un monaco vestito coi suoi paramenti rosso vino e giallo. Parlavano sommessamente indicando un passaggio presso il torrente che serpeggiava come una lama di cristallo attraverso lo smeraldo di qualche risaia.
Dopo un paio di minuti arrivò anche Govinda coi lunghi capelli neri sciolti sulle spalle che appariva un po’ preoccupata in viso.
“Il proprietario mi ha detto che ci sono tracce di un grande Leopardo! E’ gioioso poiché questo non accadeva da parecchi lustri, dice che ha fatto chiamare quel monaco che vedi lì sotto: è una specie d’esperto. Nel monastero sulle montagne più ad oriente da dove lui proviene, a quattro giorni di marcia da qui, i monaci ricevono ogni giorno la visita di questi bellissimi animali in via d’estinzione. In effetti è molto strano che ve ne sia uno qui a Leh,è riuscito a ritrovare la traccia del percorso che l’animale ha fatto. In qualche modo ha attraversato il fiumiciattolo ed è venuto subito nella direzione della palazzina. Le tracce terminano proprio sotto la finestra della camera dove noi abbiamo dormito!”
Lo sguardo di Govinda si era fatto inquisitore:
“Tu, evidentemente, non ne sai di nulla? E dimmi un po’, da quanto tempo te ne stai qui fuori a prendere il fresco del mattino? Ho anche cercato Sabibar ma di lui nessuna traccia. Il suo giaciglio è intatto, non ha sicuramente passato qui la notte”.
Ora anch’io mi ero sentita cogliere dal solito fastidio alla bocca dello stomaco. Cosa dovevo rispondere alla mia amica? Decisi di raccontare la verità, evitando però di entrare nei particolari, la presi in disparte tirandola dolcemente per il braccio.
“Senti Govinda, non agitarti, penso che Sabibar sia stato fuori durante la notte… di fatto, l’ho visto questa mattina sul terrazzo dove prima mi hai trovata. Mi sono svegliata poco dopo le quattro, tu dormivi profondamente, ma in seguito non sono più riuscita a riaddormentarmi. Ho avuto uno strano sogno: una visione nella quale ho incontrato un Leopardo delle nevi… era un esemplare di grandezza eccezionale, mi arrivava fino alla vita! Pensavo mi volesse aggredire e così, nel sogno, sono scappata via andandomi a rifugiare in uno stupa come qui ve ne sono tanti. Ma il Leopardo mi ha raggiunta e poi mi ha parlato con una voce autorevole”.
Avevo guardato di sottecchi l’amica, inizialmente convinta che potesse avere una reazione stizzosa o infastidita, poi avevo continuato bisbigliando:
“Non ricordo, purtroppo, cosa mi avesse detto l’animale ma capivo il suo linguaggio. Mi sono svegliata un po’ disorientata e quando è stato sufficientemente chiaro per vedere dove mettevo i piedi, sono andata sul terrazzo. Lì ho visto Sabibar, pareva divertito e sapeva del mio sogno… come se, beh, come se ci fosse stato anche lui nel sogno! Una cosa mi è ora certa: devo seguire le impronte del grande felino, Govinda. Puoi per gentilezza chiedere al monaco di mostrarmi dove portano le sue tracce? Qualcosa mi dice che, oltre il fiumiciattolo e poi giù sul fondovalle tra i pini risaliranno verso quel punto della montagna,” indicai l’avvallamento segnatomi qualche ora prima da Sabibar.
“Là troverò Sarabi-Al-Surfa, il vecchio Saggio”.
L’oste si era mostrato un po’ preoccupato alla mia richiesta di seguire le tracce del Leopardo, pareva però divertito, un non so che di timore frammisto ad ilarità.
“Signora! E cosa vuole chiedere al grande felino? Conosce forse la sua lingua?”
Alla sua domanda risposi con un’alzata di spalle, un po’ irriverente, ma molto chiara:
“Già già… e qui tutti che si preoccupano per me. Conosco molto bene i felini, ho l’abitudine di dormirci assieme e di ascoltare tutti i loro pettegolezzi… mi creda, non c’è molta differenza tra un gatto di 5 o 6 chilogrammi e quel grosso micione che si aggira da queste parti!”
Evidentemente stavo bluffando, e mi accorsi della mia spiritosaggine solo quando Govinda ebbe tradotto in Hindi la mia frase all’oste ed al monaco. Entrambi si toccarono la testa, dove c’è la fontanella e il monaco sorrise parlando a Govinda che poi tradusse:
“Dice che forse in una vita precedente la tua Mente è stata in un corpo di felino. O che forse hai vissuto qui, nel loro monastero, dove i monaci parlano ai leopardi. Dice ancora che questo forse è solo l’inizio di una nuova Storia”.
Govinda aveva poi cercato di aggiungere altri dettagli, ma il monaco appariva allegro e già si era avventurato lungo il percorso seguito dal Leopardo.
“Dice che ora lui verificherà da dove è passato, poi quando avrà rintracciato il percorso, ritornerà per istruirti su cosa fare… anche se, beh, non penso che sia una buona idea quella d’andare sulla montagna da sola. Hai la fissa con questa storia dei gatti, non dimenticarti che quell’animale pesa più di te! Vorrei sapere dov’è finito Sabibar, neppure il nostro oste lo ha visto… è macabro, ma hai pensato all’eventualità che il Leopardo se lo sia mangiato?”
Avevo percepito un brivido lungo la schiena, per un attimo il cuore aveva fatto un tonfo, avvertivo una sensazione di ghiaccio attorno alla testa e poi giù fino alla punta dei piedi.
“No, non credo. Il Leopardo non aveva parvenze feroci. L’animale mi aveva raggiunta nel sogno e questo anche Sabibar lo aveva saputo. C’è qualcos’altro che mi sfugge, Govinda. Ho la netta sensazione che se seguo le tracce del leopardo fin lassù in quell’avvallamento, scoprirò molto di più di quanto mi prefiggo di scoprire! Anche se io volevo solo conoscere Sarabi-Al-Surfa per chiedergli una Storia in cambio del FINDERORIÉN”.
Dopo un paio d’ore il monaco era tornato sui suoi passi, ci aveva raggiunto sul terrazzo della palazzina di legno e pietra. Il sole brillava alto allo zenit, mentre un fresco venticello smuoveva con estrema dolcezza i fiori color porpora della Leycesteria che decorava la parete meno esposta ai freddi venti del nord. Il suo viso era sempre cordiale e sorridente, mi mostrò un oggetto che aveva trovato per terra, mi disse, a metà della pendice che portava verso l’avvallamento.
Lo presi con la mano che tremava un po’:
“É il Khanda di Sabibar! Il diadema che fissava il suo turbante… C’era solo questo? Voglio dire… insomma… non c’era null’altro lì attorno?”
Il monaco attese che Govinda aggiungesse qualche altro particolare in hindi sillabando le parole per meglio farsi comprendere. Poi Govinda tradusse la risposta del monaco:
“No, null’altro. Riferisce che tu lo dovresti sapere, qui vivono monaci che sanno anche volare! Sono membri di una setta, ma questo non è un loro simbolo. Ma è un diadema di grande valore!”
Lo rigirò nelle mani mostrandomi il retro dell’effige raffigurante le due scimitarre ed il pugnale; il retro era una grossa pietra rossa sfaccettata e molto brillante.
“Accidenti!” disse Govinda “assomiglia ad un rubino della grandezza di un uovo!”
Guardai con maggiore cura il diadema rigirandolo tra le dita. C’era qualcos’altro: si intravedeva un’incisione rappresentante nientemeno che il FINDERORIÉN. L’oggetto che avevo ricevuto in regalo dal bimbo nel Tief’s Market di Delhi.
“É stupefacente, guarda,” dissi levando dalla sacca l’oggetto “ritrae proprio questo FINDERORIÉN. Cosa potrà significare? E perché mai dietro il diadema di Sabibar?”
Il monaco era rimasto come pietrificato, osservava il FINDERORIÉN ed il Khanda che tenevo tra le mani, poi si era nuovamente toccato la sommità del capo ed aveva iniziato a recitare uno strano mantra. Non riconoscevo le parole benché la melodia aveva un non so che di famigliare. Guardavo l’uomo di sottecchi, cercando di percepire cosa stesse accadendo. Non volevo interrompere la sua preghiera poiché ero convinta fosse di buon auspicio per l’avventura di domani.
Il mattino seguente, dopo un’abbondante colazione, Govinda a malincuore mi aveva visto partire. Mi ero presa una minima provvista di cibo per l’emergenza e qualora avessi dovuto passare una notte all’addiaccio l’oste mi aveva dato un sacco a pelo. Per proteggermi dal freddo quando la temperatura si sarebbe ulteriormente abbassata, mi aveva consegnato una pesante giacca di piume d’oca. In quel periodo dell’anno, poteva accadere che durante la notte il freddo vento portasse anche qualche fiocco di neve.
Il monaco aveva camminato lesto, facendo il funambolo lungo un invisibile filo che gli permetteva di trovare ciottoli piatti sopra la superficie dell’acqua. Oltre il fiumiciattolo, che anch’io avevo attraversato con facilità e fortunatamente senza mai mettere il piede in fallo, mi ritrovai a camminare su muschio verdissimo e ricoperto da minuscoli fiorellini bianchi.
Grossi cespugli di ortensie rosa e folti ciuffi di papavero blu decoravano qua e là il paesaggio. Alti cedri e pini imponevano la loro presenza ricordandomi le alpi della mia piccola Svizzera.
“Aspetta un attimo, per favore!” Avevo gridato con voce roca, “di questo passo, non arrivo alla meta, se non riprendo un po’ fiato”.
Il buon uomo, mi era apparso come una macchia rossiccia e gialla mentre spariva dietro le cortecce del boschetto di pini. Si era però fermato poco oltre, sedendosi ad aspettarmi tranquillamente su di un grosso masso. A quell’altezza io avevo difficoltà a respirare: l’aria conteneva poco ossigeno e bisognava abituarsi a prendere le cose con maggiore tranquillità. Ogni movimento mi sembrava impossibile da realizzare, anche solo sollevare un piede da terra appariva come un’impresa difficoltosa.
‘Quanto vorrei essere più agile ed in forma! Spero d’essere capace di continuare da sola, ci scommetto che il monaco non sarà molto propenso all’idea di farmi da guida alpina tra quegli strapiombi e pietraie’.
I pensieri mi ronzavano nella testa senza darmi tregua; le visioni del Leopardo delle nevi, sempre più nitide e coinvolgenti, tornavano a torturarmi. Ero convinta che quell’animale fosse la chiave del mistero; nel mio intimo immaginavo a come sarebbe stato soffice il suo pelo e sognavo di accarezzarlo. Il pensiero dei miei gatti, restati a casa con mio marito, mi aveva procurato una fitta al cuore.
‘Accidenti quanto mi mancano! Chissà se dormiranno tutti quanti sopra il nostro letto’.
Arrivai ad un paio di metri dal monaco quando questi si rimise in piedi:
“Bene, noi separare, Signora”.
“E ti pareva!” il pensiero mi fece stizzire e risposi un po’ seccata:
“Ahh, ed io pensavo che la sua generosità l’avrebbe esortato ad accompagnarmi a vedere il Saggio!
Il monaco sorrise mentre i suoi occhi si fecero ancora più piccoli, rispose in un inglese elementare:
“Non posso. Già avuto dono mia Storia da Sarabi Al-Surfa, Signora. Per questo ora sono un monaco. Prima avevo famiglia, ero commerciante di lana e avevo buona vita. La Storia ha mostrato Via della vera Felicità”.
Ero rimasta con la bocca socchiusa, confusa ed imbarazzata. D’un tratto non volevo neppure conoscere altri particolari, la curiosità si era spenta dentro il mio cuore come un secchio d’acqua gelata può spegnere un fuoco di campeggio. Sentivo la testa che doleva, anche se ero convinta si trattasse della carenza d’ossigeno, sapevo che la mia baldanza si stava tramutando in timore… in reverenza… forse anche in paura.
Cosa mi avrebbe insegnato la Storia del Vecchio Saggio? E se poi anch’io avessi voluto cambiar vita?
Ma a quel punto del viaggio, di quel percorso alla ricerca della Verità, non potevo indietreggiare. Ero sicura che alla fine della ricerca sarei stata appagata e felice!
“Okay, bene, grazie allora. É stato gentile a condurmi fin qui, ora permetto al mio cuore di indicarmi la strada. L’ho fatto già tante volte nella vita, non è così difficile, lo so. Devo solo avere fiducia in me stessa ed utilizzare l’Amore!
Mi girai un paio di volte, per controllare se il monaco fosse rimasto lì forse pensando che al primo ostacolo avrei potuto rovinare a terra e magari fratturarmi una gamba, ma lui era subito ritornato sui suoi passi e senza neppure girarsi. La certezza era sicuramente nel suo cuore avendo già raggiunto la sua destinazione, la sua Meta.
Avevo cercato di intensificare ogni percezione corporea; ora avvertivo con maggiore nitidezza il terreno sottostante sul quale poggiavo i piedi, ogni piccola pietra era con cura verificata nella sua stabilità.
A circa metà cammino dall’avvallamento, lui era lì ad attendermi, una macchia biancastra e maculata distesa sopra uno spuntone di roccia. La sua lunga coda, grossa come un mio braccio, appariva più scura verso la punta dove le macchie erano concentriche e nere. Un esemplare maestoso di Leopardo delle nevi dallo sguardo fiero, le orecchie ritte sopra la testa mostravano interesse verso l’umano che stava per addentrarsi nel suo regno.
Avevo percepito ogni muscolo del corpo tendersi, l’olfatto si era fatto più sottile mentre senza quasi rendermi conto, le mie gambe avevano assunto un’agilità tale da permettermi di saltare con estrema facilità da un masso all’altro. La presenza del grande felino ad una decina di metri, non m’intimoriva. Provai a parlare ma le parole erano rimaste pensieri inespressi, così mi limitai a pensare.
‘Eccomi. Mi hai chiamata ed io sono accorsa, come convenuto dal fato… dal destino! Cosa hai tu, o maestosa creatura, da portarmi quale messaggio? Mi sei apparso nel sogno ed io ti ho seguito’.
Non dovetti attendere molto per ricevere un cenno da parte del grande felino: si era rizzato sulle quattro zampe e con un agile balzo si era avvicinato. Mi ero fermata, rispettosamente. Il mio sguardo si era posato a terra, in reverenza; l’animale si era avvicinato e con il muso nell’aria, odorava per comprendere chi avesse di fronte. Un debole e roco miagolio aveva confermato la sua approvazione: si era avvicinato fino ad essere a meno di un metro di distanza dal mio corpo. Mi ero quindi accucciata, protendendo le mani in avanti con i palmi rivolti verso l’alto in una sorta di gesto di sottomissione.
Il grande Leopardo delle nevi si era avvicinato fino a sfiorare le mie mani poi si era a sua volta accovacciato sulle zampe posteriori e mi stava osservando. I suoi occhi gialli dalla pupilla poco dilatata a causa dell’intensità della luce, brillavano di una consapevolezza dolce ed al contempo fiera. “Benvenuta straniera, il mio nome è Siramian. Ti ho a lungo attesa, il tuo percorso è stato periglioso e difficile negli anni, ma lo sarà ancora di più in futuro. So che stai cercando la tua Storia, che potrà farti decidere di modificare per sempre la tua vita oppure… potrà avvalorare ciò che farai nella consapevolezza della ragione del perché vivi. Seguimi, ti prego”.
Le sue parole, null’altro erano che pensieri espressi dalla mia coscienza, mi avevano aperto alla Verità: già potevo comunicare in quella lingua misteriosa. Era la stessa lingua utilizzata dai miei gatti, in fondo l’avevo sempre conosciuta, l’avevo sempre utilizzata! Ma solo ora ne ero consapevole.
Avevo allungato la mano destra fino a toccare il capo del grosso felino, egli aveva voltato leggermente la testa verso di me, socchiudendo gli occhi. Quindi con dolcezza lo avevo accarezzato lungo il collo e giù sulla schiena, proprio come facevo con i miei gatti. Poi Siramian aveva continuato a comunicare nel pensiero.
“Devi sempre avere fiducia in ciò che fai. Dentro ogni essere umano è racchiuso un grande potenziale, pochi se ne accorgono, pochissimi trovano il proprio FINDERORIÉN ma unicamente una percentuale irrisoria ascolta le parole del cuore che li dovrebbe portare a scoprire la ragione della propria vita. Dentro ogni essere umano è archiviata la conoscenza di innumerevoli esistenze, voi tutti avete più volte scoperto la Magia e dovreste essere in grado di usarla… Questo è ciò che Sarabi Al-Surfa vuole che tu sappia, poiché la tua storia è già scritta ed egli sa che tu puoi seguire il tuo Sentiero nella pace. I tuoi amici gatti, che sono così simili ed a me cari, già ti stanno aiutando a comprendere!”
Avevo recepito con attenzione le rivelazioni di Siramian fissandolo diritto negli occhi, cercando di comprendere se il suo messaggio celasse un nuovo mistero.
“Penso di poter avere fiducia in ciò che faccio…” gli avevo detto mentalmente, “ma tu mi porterai da Sarabi Al-Surfa? Ho per lui un Regalo!”
Senza aggiungere altro, il grosso felino si era alzato ed era ritornato sui suoi passi; un paio di volte si era fermato per controllare se io riuscissi a seguirlo senza problemi. Il Leopardo delle nevi sceglieva un percorso a me accessibile con più facilità, ogni tanto si fermava ad aspettarmi o per darmi la possibilità di bere un po’ di tè dalla borraccia.
Il sole aveva da qualche tempo oltrepassato lo zenit quando finalmente avevamo raggiunto una radura tra le rocce con poche sterpaglie e qualche bergenia dai pallidi fiorellini che davano l’unico tocco di colore. Sul fondo contro l’azzurro del cielo, si stagliava il Chorten che avevo visto nel sogno. Mi ero fermata, assalita da un forte dubbio: volevo veramente conoscere la mia Storia? Oppure era semplicemente la curiosità di vedere personalmente il vecchio Saggio?
Forse la paura si era impossessata del mio pensiero, mentre queste parole risuonavano ancora nella mia testa come un minaccioso presagio.
“Ebbene? Abbiamo perso la determinazione? Non devi temere, lascia sia l’Amore a guidare i tuoi passi”.
Il Leopardo si era incamminato verso il Chorten, ricoperto da una spessa lamina d’oro massiccio, che brillava nella luce del tramonto. Mi resi conto che presto sarebbe giunta la notte e che ormai non c’era più tempo per ritornare all’ostello. Non avevo scelta, dovevo seguire Siramian.
All’interno del Chorten, mi trovai avvolta da una luce soffusa emanata da diversi lumini mentre un intenso profumo d’incenso aveva riacceso in me antichi ricordi. Quando lo sguardo si era abituato alla penombra, i miei occhi perlustrarono l’interno di quel luogo di preghiera. Non ero subito riuscita a scorgere la sagoma oscura accucciata in un angolo: percepivo però gli occhi del vecchio Saggio che mi stavano scrutando.
“Benvenuta, finalmente! É da molte lune che ti attendevo”.
La voce era melodiosa ed un pochino tremula; il grande Leopardo delle nevi mi si era avvicinato ed ora sentivo il suo alitare sulla mano destra. Istintivamente lo accarezzai sulla testa ed egli iniziò subito a fare le fusa.
“Mi compiaccio nel vedere che hai fatto amicizia con Siramian, il grande felino… ma in fondo è solo un po’ più grande dei molti gatti coi quali condividi la vita di ogni giorno! E’ da oltre 5’000 anni che il gatto è venerato, gli egizi lo ritenevano sacro e la Dea Bastet, protettrice dell’umanità, era raffigurata con una testa di gatto. Ma questo già lo sai, nevvero? Tu sei venuta fin qui per un’altra ragione… tu desideri ascoltare la tua Storia!
In quel mentre avevo percepito una folata di freddo vento provenire dall’apertura alle mie spalle ed il Leopardo delle nevi aveva leggermente digrignato i denti girandosi verso l’entrata. Qualcosa o qualcuno era penetrato all’interno: la presenza si era fatta avvertibile, percepivo che stava venendo nella mia direzione.
“Non temere, è il Tempo! Ho bisogno di Lui per poterti raccontare la tua storia… ma dimmi, sarai tu disposta ad esaudire il nostro desiderio?”
La voce del vecchio Saggio era grave e determinata. La presenza si era fatta certezza, udivo il frusciare del Tempo riecheggiare nella semi oscurità mentre il Leopardo delle nevi si era nuovamente accucciato al mio fianco ed il vecchio uomo si era avvicinato a noi. Sedutosi sopra una sorta di sgabello, che inizialmente non avevo notato; Sarabi Al-Surfa aveva allungato le sue scarne mani verso di me.
“Bene, ora vediamo cosa mi hai portato! Ho saputo da Siramian che è molto bello, unico nel suo genere! Sono curioso di vederlo e ti ringrazio per questo delicato pensiero!”
Con la voce un po’ tremante avevo risposto al Saggio, porgendo il dono:
“Penso abbia una grande virtù, mio marito ed io lo abbiamo chiamato FINDERORIÉN ma so con certezza che ha moltissimi nomi. Mio papà, molti anni or sono, mi aveva detto che tutte le persone dovrebbero possederne uno: per ricordare… e non dimenticare. So che c’è un significato simbolico in questo, poiché la magia è legata all’oggetto ed ai nostri gatti. E’ forse proprio questo il significato della MIA Storia?! C’è qualcosa che devo sempre ricordare ed i nostri gatti mi aiutano a farlo?”
“Sarabi Al-Surfa aveva socchiuso gli occhi, accarezzava l’oggetto ed aveva iniziato a canticchiare una nenia. L’aria si era fatta fresca e percepivo la presenza del Tempo attorno a me. Infine il vecchio Saggio aveva iniziato a raccontare una lunga storia, una lunghissima vicenda. La MIA Storia!
In un luogo difficilmente raggiungibile via terra, avevo conosciuto un vecchio Saggio ed un grande Leopardo delle nevi, che hanno cambiato la mia vita.
Sarabi Al-Surfa mi aveva chiesto di narrare al Mondo la storia che ora stai leggendo, poiché desiderava che sempre più bambini potessero ritrovare il proprio FINDERORIÉN e quindi portare finalmente la pace in questo stupendo Pianeta Terra.
Utilizzando gli occhi del cuore e lasciandoti guidare dall’Amore, anche tu potrai trovare il tuo FINDERORIÉN e cancellare ogni traccia di malvagità e dolore dal mondo!
In seguito, quando sarai pronto, potrai recarti tu stesso dal vecchio Saggio della Montagna: egli ti sta aspettando!

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